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Quanto costa l’emotività

Una delle maggiori insidie per il risparmiatore è rappresentata da sé stesso. La psicologica umana spesso va a sbattere contro le dinamiche dei mercati finanziari: è un nemico invisibile e difficilmente quantificabile.


La quantificazione dell’auto-danno

La società americana Dalbar da anni cerca di dare una risposta al costo dell’emotività attraverso la finanza comportamentale. Per calcolare questa voce occulta viene presentato un raffronto: negli ultimi 20 anni (fino al 2016) l’indice S&P 500 ha avuto un ritorno annualizzato del 7,68%, mentre il rendimento dei possessori dei fondi azionari è stato del 4,79% con una differenza che è pari al 2,89% e che viene imputata alla presunzione del risparmiatore di entrare e uscire dal mercato. Alla fine le mosse del risparmiatore medio si sono trasformate in un costo di circa il 3% annuo. In una fase di forte rally borsistico questa incidenza può passare in secondo piano mentre quando il mercato vivacchia o ancora peggio scende questo “costo” diventa visibile e rilevante.

Il tema della quantificazione dell’emotività è oggettivamente strategico anche nei rapporti tra clienti e consulenti. Spesso l’investitore reagisce in modo esagerato alle notizie sui mercati e questo porta a comprare e vendere nei momenti peggiori. Il gap in negativo tra andamento del mercato azionario e rendimenti registrati dai possessori dei fondi è dovuto in buona parte al fatto che anche nell’investimento passivo l’investitore tipo si lascia trasportare dalla paura dalle emozioni e dall’avidità: per esempio in fasi di discesa e caduta dei mercati tende a disperarsi e prendere decisioni d’istinto che spesso vanno in contrasto con le scelte pianificate. Ed essere consapevoli di questi meccanismi non mette al riparo dal commettere gli stessi errori.


L’irrazionale risposta ai mercati

La psicologia umana non è proprio stata costruita per affrontare i moderni mercati per la sua difficoltà di adattarsi ai cambiamenti. E la lista degli errori che la finanza comportamentale registra è lunga. Il principio cardine che non va mai dimenticato è che tendiamo a prendere decisioni poco razionali poiché siamo molto più sensibili e scottati dalle perdite di quanto non ci entusiasmiamo per i guadagni. La gestione delle perdite (e le reazioni scomposte che ne derivano) resta il vero nervo scoperto.

Tutto questo si traduce nel fatto che ad esempio gli investitori Usa detengono i fondi di investimento in media per 4 anni. Sicuramente un arco di tempo non sufficiente per parlare di strategie di lungo termine. Dalbar ha creato un indicatore, denominato “Guess Right Ratio”, vale a dire l’abilità degli investitori di entrare sui fondi e guadagnare il mese successivo indovinando la direzione degli indici. Ebbene dalle rilevazioni emerge che tra il 2009 e il 2016, su base annua, gli investitori hanno indovinato il momento di entrata in 6 mesi su 12: un risultato  che mostra più di una falla.

Per evitare di cadere nelle trappola di poter prevedere correttamente il mercato, non resta che la strategia “buy and hold”. Sicuramente ha il vantaggio di ridurre i costi di entrata e uscita, oltre a impedire che l’emotività del risparmiatore abbia il sopravvento. Questa strategia richiede comunque un lasso di tempo sufficiente a produrre i propri effetti: almeno 10 anni, salvo guadagni in un lasso di tempo inferiore per aver colto il trend giusto.

Di Andrea Gennai

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